Storia

CLAUDIO COVATO vince il Premio De André

– Il cantautore di Rosolini prevale con “Chiddu ca ma resta”, «un brano immateriale» in dialetto. Lo stesso «approccio popolare ma universale con il quale Fabrizio aveva aperto la strada con il capolavoro senza tempo di “Crêuza de mä”», recita la motivazione
– Il miglior modo per cominciare un progetto cantautorale dopo un inizio nel mondo lirico. «Ho scelto di vivere nella mia terra e stare accanto alla mia famiglia e a mio figlio. Non vado alla ricerca del successo, ma dell’arte autentica, espressione dei luoghi in cui vivo»

«Nel dialetto della sua terra, la Sicilia, ha portato sul palco l’approccio popolare ma universale, lo stesso con il quale Fabrizio aveva aperto la strada con il capolavoro senza tempo di Crêuza de mä. Musicalmente molto raffinata, la sua canzone Chiddu ca ma restasi compone di una notevole varietà melodica, armonica e ritmica dall’importante messaggio testuale». 

È la motivazione con la quale il Premio Fabrizio De André 2025, per la sezione musica, è stato attribuito a Claudio Covato, il riccioluto e barbudos cantautore siciliano che si era già messo in luce nella selezione regionale di agosto al Centro Zo di Catania arrivando al primo posto.

Claudio Covato, 32 anni, ha scelto di restare a vivere nella periferia dell’Impero, in un paesino fra Siracusa e Ragusa, Rosolini, famoso soprattutto per le carrube. È qui che intende realizzare i suoi sogni: una famiglia, con un bambino già arrivato, un lavoro, docente – «precario», sottolinea – di chitarra classica alla scuola media di Vittoria, e un progetto cantautorale cominciato nel migliore dei modi, al quale è arrivato dopo un inizio classico, negli studi – chitarra e canto lirico – e nelle prime esperienze lavorative.

«Prima di intraprendere questa bella avventura, sono stato per alcuni anni artista del coro all’Opera», racconta. «Ho fatto da corista aggiunto in varie situazioni sia in Italia che all’estero, lavorando in Francia, Oman, Emilia, Lombardia. Poi è finito l’entusiasmo proprio dal punto di vista artistico. Avevo anche voglia di tornare a casa, di stare giù, che fa parte delle mie priorità, come far crescere mio figlio, stare accanto alla famiglia, al mare, dove in questo momento abito».

Nessun album ancora all’attivo, «comincerò presto la produzione per pubblicarlo il prossimo anno», ma quattro doppi singoli («una formula che ho adottato per la fascinazione del 45 giri»), in cui mescola italiano e dialetto, Lucio Dalla e Pino Daniele, folk e canto lirico, spaziando dal registro tenorile a quello da soprano. «Cerco di enfatizzarli entrambi per dare tutte le sfumature interpretative dei brani», dice. 

Canta la vita, il tempo, l’amore: canta le cose. Alla finale romana del Premio De André, armato soltanto della sua chitarra acustica e della sua originale voce, ha interpretato l’inedito Chiddu ca ma resta, un brano influenzato dal Montale della “maglia rotta nella rete che ci stringe”, quando invita alla nuova realtà appena scoperta attraverso la smagliatura nella rete. È la libertà della conoscenza.

«È un brano immateriale, parla del senso ultimo delle cose oltre alla loro apparenza», spiega. «Vorrei che, ascoltando questo brano, si abbia una lettura della realtà che va oltre la sua materialità. Nel brano è elencata tutta una serie di cose: questo mare che mare non è, questo amico che amico non è, questa donna che non è donna, come se tutti i componenti dell’universo fossero in fondo tutte la stessa cosa e, quindi, sugnu masculu e fimmina, o sugnu africanu, inglisi, giappunisi».

Claudio Covato e la salentina Giulia Imparato sono stati gli unici concorrenti a cantare in dialetto, tutti gli altri finalisti hanno scelto l’italiano. «Il clima era rilassato, amichevole, gioviale rispetto a quello che mi aspettavo, era completamente assente il senso della competizione, che è un valore tossico nell’arte e non porta da nessuna parte. Fra gli artisti c’era un interesse nello scoprirsi a vicenda, nel capire i retroterra di ciascuno, il legame che ognuno ha con la propria terra. Penso che questo sia un momento buono per il dialetto, vedi il successo di La Niña o Marco Castello, c’è più attenzione e disponibilità all’ascolto».

  • Ma restare in Sicilia, a Rosolini, non può diventare penalizzante per la tua carriera artistica?

«Credo di aver stabilito nella mia vita un ordine di priorità. In cima c’è la famiglia e tutto il resto viene da sé. Famiglia vuol dire territorio, senso di appartenenza, responsabilità politica. Vuole dire anche arte autentica, che è quella che mi prefiggo di raggiungere, che parte dalle suggestioni che mi arrivano dal territorio. Poi, nulla mi vieta di viaggiare. È una scelta influenzata anche dalla sfiducia nei confronti dell’industria discografica, del mito della grande città, del sogno effimero dello show business. Se questo dovesse diventare un problema insuperabile ai fini della carriera musicale, credo che me ne farò una ragione. Ci proverò, ma il successo non è il mio obiettivo principale».

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