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Bryan Ferry: ho sempre amato cantare brani altrui

– L’artista inglese festeggia 50 anni di musica con una retrospettiva della sua carriera. «I Roxy Music erano una band fantastica, molto brava, con personaggi unici, quindi farne parte è stato un vero piacere»
– «La cosa migliore è che non sei responsabile dei testi e della melodia. C’è una grande libertà. Quando ero adolescente ascoltavo dischi jazz e ho scoperto che la stessa canzone veniva suonata da musicisti diversi»

In 79 anni di vita (è nato a Washington, Tyne and Wear, a pochi chilometri da Newcastle, il 26 settembre 1945), Bryan Ferry ha trovato sempre il modo di far parlare di sé. Ha fatto scuola per il suo estetismo raffinato e per molti eccessivo, per la rivoluzione musicale avviata insieme ai Roxy Music con l’amico-nemico Brian Eno all’alba degli anni Settanta, per i suoi flirt vistosi, tormentati e ricchi di glamour, per la sua capacità di spostare sempre di un grado la sua posizione rispetto ai gusti del momento. Nostalgico, avanguardista, sentimentale, decadente: Ferry è uno dei pochi artisti che può vantarsi di avere diversi imitatori e nessun epigono. David Bowie lo ha definito «il miglior autore di testi di tutta la scena britannica». La sua musica resiste al tempo, come dimostra la retrospettiva con cui il cantante inglese festeggia 50 anni di carriera.

Nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico nel 2011, Bryan Ferry è una delle figure di spicco della storia del rock. Tuttavia, la sua carriera da solista è apprezzata solo parzialmente dal grande pubblico. I fan meno illuminati lo identificano sicuramente solo con il suo album Boys & Girls del 1985, pubblicato dopo il travolgente successo di Avalon (1982), dei Roxy Music, e con singoli memorabili come Slave to Love o Don’t Stop the Dance. Alcuni credono addirittura che sia stato allora che abbia iniziato la sua carriera da solo. Un inizio che, invece, risale al 1973, quando pubblicò These Foolish Things. Sedici album, lasciando ai posteri un vasto catalogo che abbraccia un arco di cinquant’anni, adesso raccolto in un’antologia di 81 tracce intitolata Retrospective: Selected Recordings 1973-2023.

Quando Ferry fece il suo debutto da solista, i Roxy Music stavano ancora muovendo i primi passi: aveva pubblicato solo un album omonimo. I suoi compagni di gruppo non la presero male. «Hanno capito che era una specie di divertimento. Sentivo ancora che il mio lavoro principale fosse la band, per la quale scrivevo e che era il veicolo per le mie canzoni. Era una grande band, molto brava, con personaggi unici; quindi, farne parte è stato un vero piacere». Ciò che ha reso These Foolish Things un lavoro diverso è stato il fatto che si trattava di un album di cover. Nel repertorio c’erano canzoni di Bob Dylan, Elvis Presley, Beach Boys, Rolling Stones, Beatles e Four Tops, tra gli altri. Da quell’uscita, gli album di cover hanno guadagnato sempre più importanza nella discografia di Ferry, al punto che si può dire che grazie ai suoi sforzi ha gettato le basi affinché altri grandi del rock facciano lo stesso. Nel 2007 ha registrato un album completo con composizioni di Bob Dylan (Dylanesque).

Trova la vera gioia nel lavorare con le canzoni di altre persone: «La cosa migliore è che non sei responsabile dei testi e della melodia. C’è una grande libertà. Quando ero adolescente ascoltavo dischi jazz e ho scoperto che la stessa canzone veniva suonata da musicisti diversi: Charlie Parker, Ella Fitzgerald, Billie Holiday, Frank Sinatra… C’erano modi diversi di realizzare lo stesso standard. Mi piacciono le mie canzoni, ma è stato divertente registrarne altre che fossero diverse dal mio stile di scrittura». 

Non a caso, per lanciare questo compendio di 81 brani, Bryan Ferry Ferry ha puntato su un nuovo aggiornamento di She Belongs to Me di Bob Dylan da Bringing It All Back Homedel 1965, che è stato anche il singolo di debutto da solista di Ferry. Altri punti salienti includono la canzone Star, la prima nuova uscita musicale di Ferry in oltre un decennio, così come i preferiti da solista, da Slave to Love a Don’t Stop the Dance e Kiss and Tell.

Nel periodo di massimo splendore dei Roxy Music, Ferry ha rimodellato il passato così vigorosamente che può suonare ancora come avanguardia, ha impresso un marchio come una delle figure più creative della cultura pop britannica. È sempre stato in bilico tra la stravaganza del rocker e la raffinatezza del crooner, ora con l’età che avanza il secondo ha preso il sopravvento.

«Non c’è molta melodia oggi nella musica moderna», ammette. «Si assiste a una enorme banalizzazione: è tutta una questione di ritmo e battiti e di tanto in tanto c’è un disco hip hop in cui c’è una ragazza che canta nella parte centrale e si ottiene una melodia. Per quanto riguarda le rock band, trovo la maggior parte interessante, ma, per quanto buoni possano essere, sembra che suonino come una persona di venti o trent’anni fa». Jazz e blues, fa notare, erano le sue fonti d’ispirazioni a inizio carriera, ricordando le serate in un locale che andava sotto il nome di New Orleans Jazz Club. «Io non avevo soldi, così mi sedevo con una birra tutta la notte, sperando di non essere buttato fuori. Ero minorenne. C’era una vera e propria band bebop lì. Di tanto in tanto ci si vedeva qualcuno come Eric Burdon. Il primo disco comprato era del quintetto di Charlie Parker, con Miles Davis. Ho imparato ogni nota nella mia testa. La spigolosità dell’assolo di Parker era pura bellezza».

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