– Ispirato a un famoso articolo di Pasolini il progetto disco-libro della cantautrice siciliana. Una raccolta di storie raccolte ascoltando gli altri. Racconti di emigrazione e di disagio esistenziale fra i banchi di scuole di frontiera
– «La parte fondamentale del mio lavoro, del nostro lavoro di insegnanti, è quella dell’ascolto dei ragazzi. Ho notato che diversi adolescenti non trovano la loro identità, il loro spazio nel mondo. I ragazzini sono molto chiusi in se stessi»
– Un progetto variegato, fra dialetto e italiano, folk e canzone d’autore, musica e teatro. «Io sono un po’ tutte queste cose e penso che ognuno di noi sia tante cose. Lascio che l’ispirazione fluisca in maniera libera»
– Una canzone sull’Europa. «Faccio parte della generazione che ha fatto l’Erasmus, quest’Europa io l’ho vissuta, la sento mia, come una madre. Però mi spiace che a volte questa Europa sia una madre un po’ assente, un po’ lontana»

Se Pier Paolo Pasolini nel famoso “Articolo delle lucciole”, uscito sul Corriere della Sera nel 1975, a pochi mesi dal brutale assassinio dello scrittore, scriveva di un prima e un dopo la scomparsa delle lucciole, Beatrice Campisi lascia “una scia d’illusione”, facendo ancora “lampeggiare l’ultima lucciola in mezzo allo smog”.
«Amo studiare, leggere, informarmi e, secondo me, è anche un dovere nostro informarci», premette la cantautrice siciliana. «Penso che tanta parte di quello che succede oggi sia legato ai fatti dal Dopoguerra in avanti e, in Italia in particolare, agli Anni di piombo. Stavo leggendo L’affaire Moro di Leonardo Sciascia e nell’introduzione viene citato l’articolo di Pasolini. Sono andata così a rileggerlo e mi ha colpito il fatto che l’autore aveva previsto il cambiamento climatico, l’estinzione delle lucciole a causa dell’inquinamento. Era il 1975. È la conferma di come l’arte, la filosofia possono anticipare i tempi».
«E poi mi ha colpito l’uso di una immagine poetica per raccontare un fatto crudo, un articolo di stampo politico e polemico», prosegue Beatrice Campisi. «Mi ha affascinato l’idea che si potesse parlare di certi temi con una metafora poetica. Quindi, ho estrapolato la metafora, l’ho decontestualizzata, e per me è diventata il simbolo dell’ultima lucciola. Pasolini parla di un prima e dopo la scomparsa delle lucciole; invece, io ho mantenuto quest’ultima lucciola che rimane a lampeggiare e che rappresenta un segnale di speranza, l’umanità, il fatto di stare insieme, di ascoltarsi. In una canzone del disco dico: “Non stare con il coltello fra i denti a litigare quando c’è una opinione diversa”. Io vedo una società molto polarizzata, in cui ogni messaggio per forza deve essere inquadrato da una parte o dall’altra. Il mondo è variegato, così le idee, bisognerebbe mettersi nei panni dell’altro, ascoltare piuttosto che giudicare».

L’ultima lucciola, titolo del terzo album dell’artista nata ad Avola (Siracusa), educata al canto al Conservatorio di Catania e laureatasi in Lettere a Pavia, dove ormai fa base e dove ha registrato i due precedenti album, è lo specchio di questo mondo variegato. È una raccolta di storie che la professoressa Beatrice Campisi ha ascoltato fra i banchi di scuola dei CPIA (Centro provinciale istruzione adulti).
«Ho lavorato in diversi CPIA, da cinque anni insegno in quello di Milano», spiega. «I miei studenti sono giovani e adulti, stranieri, ma non solo. È una scuola di frontiera. Le storie di emigrazione le ho sentite sia dai ragazzi, i cosiddetti minori non accompagnati, sia dagli adulti che fanno il serale e che sono qui da più anni. Quindi due visioni diverse: una più vivida, l’altra più elaborata».
- Una di queste storie ha ispirato Tripoli, il primo singolo estratto dal nuovo progetto: un ipnotico loop di basso fra lampi di chitarra rock.
«Racconta l’ingiustizia di rimanere intrappolati in Libia a 15 anni, dopo un lungo e difficile viaggio dall’Africa centrale. È una storia legata a un ragazzino che, un giorno, con un italiano un po’ stentato, si è rivolto a me in modo molto tenero chiedendomi: “Tu puoi raccontare questa storia di un mio amico di 15 anni che è rimasto bloccato a Tripoli?”. Ha pensato che la voce di un’artista, perché aveva scoperto che io cantavo, potesse arrivare più in là, rispetto a dove poteva arriva lui. Immaginare due ragazzini di 15/16 anni da soli in quella situazione, e poi uno riesce a partire, l’altro invece non si sa più dove sia e rimane bloccato, mi ha colpito».
- Dai banchi di scuola nasce anche Mappe stellari, ballata pianistica, molto intima, nella quale canti: “Tu chi sei, non lui, né lei, siamo pezzi di un mondo sbagliato”.
«È il brano più pop all’interno del disco e nasce dal mio contatto con i ragazzi e le ragazze a scuola. Ho notato che diversi adolescenti non trovano la loro identità, il loro spazio nel mondo. I ragazzini sono molto chiusi in se stessi e alcuni hanno una sofferenza che emerge in diversi modi: chi diventa più introverso, chi più aggressivo, chi si rifiuta di venire a scuola. La parte fondamentale del mio lavoro, del nostro lavoro di insegnanti, è quello dell’ascolto dei ragazzi e di cercare di cogliere questo disagio. Nella canzone parlo di questa ragazza/o che non sa chi è, se è lui o lei, si sente inadeguata/o ad affrontare la vita, non ha gli strumenti, le/gli sembra che tutto sia difficile. Quindi “disegneremo mappe stellari contro la tristezza” è un po’ la speranza che un’altra anima fragile si può avvicinare, tendere la mano per superare insieme le difficoltà e costruire qualcosa».
- In Elanbeco a raccontare è invece un olivo secolare. È una sorta di excursus storico che da Garibaldi arriva a oggi, con la Sicilia al centro, chiuso da una tarantella e da un’antica filastrocca in dialetto.
«Protagonista è l’ulivo che ho nella mia campagna. Un ulivo secolare. Ho immaginato quest’albero che rimane lì a guardare tutta la storia che passa per la Sicilia. È una storia nazionale che ha la Sicilia sempre al centro: lo sbarco dei Mille, quello degli Alleati. Questi passaggi fino ai fatti di Avola del 1968, quando furono uccisi due braccianti, e poi le stragi di mafia. E questo ulivo rimane lì a guardarci con indifferenza, anche quando il fuoco della montagna lo minaccia, quando siamo noi a metterlo in pericolo con la piaga degli incendi estivi».
- Sogno blu nasce invece dall’ascolto di un racconto di viaggio e fa riferimento al cammino di Santiago de Compostela.
«È stata una mia amica, una camminatrice seriale, mentre facevamo un altro viaggio, a descrivermi tappa per tappa il percorso. Mi sono così immedesimata che, quando siamo tornate, ho scritto di getto questa canzone. Il sogno blu è il mare, dove si sono tuffati alla fine del viaggio».
- Una chitarra nervosa e un organo accompagnano Europa, una sorta di preghiera a una madre che sembra assente.
«In Europa canto: “A bannera di stu seculu c’havi a to facci”. È una canzone molto legata all’attualità. “Dicunu ca si vecchia, ma nun ti crisciunu l’anni”. È un Vecchio Continente che rimane un baluardo di valori. Almeno per me. Io faccio parte della generazione che ha fatto l’Erasmus, quest’Europa io l’ho vissuta, la sento mia, come una madre. Ho vissuto per diversi mesi a Gent, vicino a Bruxelles. In Europa mi sento a casa, però mi spiace che a volte questa Europa sia una madre un po’ assente, un po’ lontana. Allora nella canzone dico: “Donna di paci, non ti scordare chi sei”. Perché, secondo me, l’Europa dovrebbe essere una finestra aperta verso un futuro di pace, di convivenza, di valori che un po’ si stanno perdendo, quelli di unità ad esempio. Mi piacerebbe invece che in questo nostro continente questi valori predominassero».
La serenata Lassimi accussì, l’inno alla vita nomade di Zingarò, in stile balcanico, e la raccolta di Vanniate, con citazione della “dduminaria” per la festa di San Giuseppe, completano L’ultima lucciola, che non è soltanto un progetto discografico, ma anche letterario, poetico. «È un libro-disco», tiene a precisare Beatrice Campisi. «C’è un libro che s’intitola L’ultima lucciola, all’interno del quale ci sono poesie, i testi delle canzoni e le illustrazioni di mia sorella Elisabetta Campisi. Poi sono state stampate anche delle copie del disco. Nella mia idea, il lettore dovrebbe acquistare il libro e leggere le poesie ascoltando in sottofondo la canzone che io ho associato a quel testo».

- Chi è Beatrice Campisi: poetessa o musicista? Folksinger che scrive e canta in dialetto o cantautrice con qualche divagazione pop e rock? C’è musica, ma c’è anche teatro in questo lavoro.
«Lo spettacolo con cui presentiamo L’ultima lucciola è un misto di canzoni e piccole performance che ho creato legate alle poesie. L’arte che amo, anche se l’ho praticata solo a livello amatoriale, è il teatro. Ho fatto l’opera, proprio perché mi piace il teatro di prosa. È un ambito nel quale mi ritrovo tanto come spettatrice, vado molto spesso a teatro. Io sono un po’ tutte queste cose e penso che ognuno di noi sia tante cose. Anche nei dischi precedenti ho mescolato generi, stili, lingue. Io vengo da tante influenze che alla fine emergono all’interno della scrittura. Appartengo a un macromondo che è quello del cantautorato, folk, con venature pop, rock, mediterranee. Mi sembra riduttivo legarsi a un microgenere. Vengo da studi classici, ho fatto il conservatorio in canto lirico, ho ascoltato il rock. Poi è chiaro che le mie radici emergono tanto. Lascio che l’ispirazione fluisca in maniera libera, rispecchiando i tanti aspetti della mia personalità. Penso che non dobbiamo avere paura nel mostrarci per quello che siamo. E siamo tutto questo, tante cose, a volte in contraddizione, ma l’essere umano è così e l’arte rispecchia questo».
Impegnata in queste settimane in un tour nell’Italia centro- settentrionale, Beatrice Campisi spera di poter presentare il suo nuovo progetto in estate anche in Sicilia. Nel frattempo, continua la joint-venture con la collega e amica Francesca Incudine: il 26 aprile a Rho con il debutto del progetto “Coro Corda – Voci di Donne”, «un giovanissimo coro polifonico fondato da qualche mese con un repertorio di canzoni dal mondo», annuncia. «Per l’occasione verrà eseguito un mio inedito legato alla commemorazione degli 80 anni dalla liberazione dal nazifascismo cantato con il coro e Francesca Incudine».