– Un album di lotta e di resistenza quello pubblicato dal gruppo icona dell’hip hop italiano. «Oggi il rap è diventato quasi un esercizio di stile, non racconta la realtà»
– Canzoni nate sulla strada, nelle piazze, nei cortei, che descrivono una società violenta, denunciano il genocidio in Palestina, spronando a una reazione
– «Tante ragazze e ragazzi scelgono l’isolamento, si chiudono nel telefonino: molta rabbia dentro, non urlata, repressa, però pronta a esplodere»
C’è chi sbandiera al mondo di essere uscito dalla “bolla” (di algoritmi, marketing e ipocrisie) e c’è chi in quella “bolla” non è entrato mai, restando «in piazza dalla parte giusta». È Luca Mascini, alias Militant A, voce di Assalti Frontali, gruppo icona dell’hip hop “old school” e pioniere di un rap politicizzato.
«Questa è stata la nostra caratteristica, forse un marchio che ho avuto io fin da quando ero piccolo», commenta Militant A. «Son cresciuto così. Infatti, in una rima di Sognatori lo dico: “Noi fortunati con un sogno in testa / siamo cresciuti liberi e liberi si resta”. In questa atmosfera mi sono formato, dalla famiglia alla scuola. Ho sempre pensato che questa fosse la strada per la felicità e per questo motivo ho sempre tenuto vivo questo contatto con la strada, le proteste, la piazza. Il rap è nato per questo e continuerà a essere questo. Oggi il rap va fortissimo ed è diventato quasi un esercizio di stile, anche molto bello musicalmente, ma che ti lascia insoddisfatto su quello che vorresti sapere della realtà».
Se due anni fa, prima di pubblicare il disco Courage, avevano atteso sei anni, scanditi dall’uscita di una serie di singoli, questa volta Assalti Frontali hanno fatto trascorrere soltanto due anni per il nuovo lavoro intitolato Notte Immensa, un album di lotta, scritto e rappato da Militant A, affiancato dal fido Pol G, con l’urgenza di descrivere quello che sta accadendo.
«Ci sono forse due motivi», spiega Militant A. «Uno è l’urgenza di questo periodo storico. Abbiamo sentito la necessità di fare uscire canzoni che raccontassero come ci sentiamo, cosa succede. È importante che ci sia la voce degli Assalti Frontali. Poi il fatto che c’è rimasto poco tempo (ride). Più avanzano gli anni e più sentiamo che non c’è così tanto tempo davanti. Quand’eri pischello dicevi: “Beh, c’ho tutta la vita”. Mo’ te devi sbriga’ a fare tutte le cose. E, quindi, ci siamo sbrigati. Volevamo fare ascoltare le cose nuove, nate durante i concerti, in strada, nei cortei. In questi ultimi tempi si è creato un bel team intorno a noi, formato da varie generazioni: ragazzi giovani, vecchi produttori come Disastro che è uno degli anni Novanta e che è tornato insieme a noi, giovani rapper come Er Tempesta, Piaga, Ellie Cottino. Una bella squadra e un bel clima, e abbiamo tirato fuori il disco».
- Le urgenze sono una società sempre più violenta, le guerre, il genocidio in Palestina, la “Notte Immensa” nella quale ci troviamo in questo momento, in Italia e nel mondo.
«C’era quel film che diceva: “Ma che ora è? Quanto manca alla fine della notte?”. E rispondono. “Ma dovrebbe mancare poco, ma non si vede il giorno”. È un po’ così, è una situazione in cui sembra che l’unica prospettiva siano le guerre, la violenza del più forte, le religioni, i nazionalismi. È importante fare splendere delle luci in questa notte, accendere dei fuochi che possano rappresentare dei punti di riferimento per chi cammina nella vita. Noi vogliamo esserlo per noi e per gli altri. Questa notte immensa è anche una notte di resistenza».
- In “Subito fuoco” rappate: “La voglia ritorna più forte di prima / la voglia ritorna e ci porterà in cima … è la rabbia del ghetto / la voglia ritorna ed esce tutta di getto”. È la voglia di tornare in piazza, di protestare?
«La voglia di sentirsi protagonisti, di non chiudersi, di tirarsi fuori da questa situazione, di non restare a guardare. È uno spronarci, una voglia che ritorna dentro di noi, e speriamo in molte persone, e che vediamo che c’è in tantissime persone che però sono rese invisibili da una società che scorre su due binari paralleli: quello mainstream del governo, della televisione, della rispettabilità, che fa sembrare che il mondo deve andare in questa direzione e che tutto deve essere a posto, e invece c’è quella della strada, del popolo, che sente le ingiustizie e in qualche modo si vuole ribellare. E, quindi, la voglia ritorna più forte di prima quando vedi l’ingiustizia che prevale. Nel 1990 quando occupavamo l’università c’era un professore di Parigi che ci diceva. “Guarda la società è formata dall’incontro di due forze: una è l’istituito che è il potere, lo status quo che si afferma dall’alto in basso, l’altra è l’istituente, che è una forza creativa e libertaria che spinge dal basso verso l’alto attraverso mille forme, anche linguaggi artistici, musicali”. Ecco, questa “istituente”, che è stata soffocata in questi ultimi anni, deve tornare a essere protagonista».
- In “Lascia libera la mente” dite: “Puoi mettere le ali e volare se credi in te / come all’inizio dell’hip hop del ’73 / ballare nelle strade come in un parkour / lanciare la vernice alle vetrate Carrefour / e c’è più rap dentro il tuo cuore / di tutto il rap della televisione”. È un ritorno agli inizi del fenomeno hip hop?
«Sì, questo disco ha tanta carica delle origini e allo stesso tempo è fatto con una testa più matura e, a livello di suoni, è più aggiornato. Riprende tanto quel sapore, quel gusto dei campionamenti, Anche come approccio, come liriche, come testi, essendo nato durante i cortei, sulla strada, le rime son fatte cercando il botta e risposta, il coro… Sì sì, ha questo sapore di origini, che però sono maturate molto».
Militant A è tornato sui banchi di scuola nelle vesti di “professore rapper”. «Che non significa che insegno il rap, perché il rap si fa per strada, non si insegna», tiene a sottolineare. «Il rap è invece uno strumento culturale di inclusione, di conoscenza, di semplificazione. Con il rap io ho raccontato la Costituzione, ho spiegato come sono fatti i quartieri. Cerco di definire un nuovo modo d’insegnare, di tirare fuori il fuoco che questi ragazzi hanno dentro». È salito in cattedra, ma sempre come “istituente”, entrando in contatto con le nuove generazioni.
«Un confronto che è anche un tratto importante del disco. Si sente in quasi tutte le canzoni, ma soprattutto in due, che sono Più che si può e Lascia la mente libera: due brani che scendono nel profondo delle emozioni, degli stati d’animo. Lascia la mente libera è nata proprio da un confronto con persone che hanno scelto di vivere nell’isolamento. Tanti ragazzi e ragazze non escono di casa, non vogliono vedere nessuno, si sentono liberi isolandosi. E più ti isoli, più è difficile tornare in mezzo alla gente. È un problema sociale che porta a conseguenze gravi»,
- Un effetto del Covid, del lockdown o è legato ad altre motivazioni?
«Il Covid ha sicuramente aggravato tutto questo. Si è vista una trasformazione delle generazioni sempre più tendente all’isolamento, al chiudersi nel telefonino: molta rabbia dentro, non urlata, repressa, però pronta a esplodere. C’è una società che non interessa, che non piace, che non capisce. Sembra una fuga, un esilio che ci deve preoccupare tutti».
L’umanità che si sta perdendo, Luca Mascini la ritrova nel Barrio, nel quartiere, «dove si respira un’aria ancora popolare». Il quartiere è il cuore pulsante del progetto Assalti Frontali. Quello di Militant A è Centocelle, periferia di Roma, abitato da minoranze etniche, emarginati, disoccupati, studenti, ultimi. Se spesso le periferie del rap sono piene di orologi, droga, armi e sesso a buon mercato, quelle di Militant A sono «una grande risorsa, un posto bello». E così le canta nel brano Nel Barrio: “A contatto diretto / coi problemi e i dolori / trasmettiamo valori / di notte in periferia / oggi la banda è riunita / con in mano i bicchieri / ci sentiamo dei geni / teniamo unita la via / siamo semplici e veri / briganti rap eremiti / so arrivati i contanti / siamo rimasti puliti”.
«Quello che manca e dobbiamo ritrovare è la comunità». Luca Mascini ne è convinto e continua a ripeterlo. «In questi due anni l’aggravarsi della guerra, il genocidio in Palestina, scoprirsi in questa società feroce, cinquecento volte più crudele del più cattivo terrorista, è stato terribile. Dobbiamo ritrovarci, ritrovare la comunità».