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ALCÀNTARA, “space ballad” d’esportazione

– La band siciliana, più conosciuta all’estero che nel suo Paese, stasera, venerdì 13 giugno, presenta al Centro Zō di Catania il secondo lavoro intitolato Tamam Shud”. Un disco che parte dal mistero dell’uomo di Somerton per affrontare gli interrogativi della vita
– «Le ballate? Abbiamo quest’anima così malinconica, spaziale». «La nostra musica è la nicchia di una nicchia, l’abbiamo scelta perché ti mantiene curioso, porta sempre qualcosa di inaspettato, è piena di imprevisti».  «L’Italia, culturalmente parlando, è indietro»

La mattina del primo dicembre 1948, il cadavere di un uomo ben vestito fu trovato riverso sulla spiaggia di Somerton (un sobborgo di Adelaide), in Australia. L’uomo in tasca aveva un verso di una poesia persiana e un pezzo di carta con scritto “Tamam Shud” che in persiano significa “finito”. Il mistero dell’uomo di Somerton, come fu definito il caso, soltanto dopo più di settant’anni sarà in parte svelato con l’identificazione del cadavere, ma restano aperti gli interrogativi sulla sua storia.

Da questo fatto di cronaca prende spunto la band siciliana Alcàntara che venerdì 13 giugno allo Zō Centro Culturale Contemporanee di Catania presenterà il suo secondo lavoro, intitolato Tamam Shud, come la frase ritrovata nella tasca del misterioso uomo di Somerton.

«Nasce da un’idea che avevo in testa e che non sapevo come concretizzare come messaggio», spiega Sergio Manfredi Sallicano, voce e autore della band. «In realtà, oggi non esiste alcun tipo di mistero. Se c’è, è mistificato dalla televisione e diventa voyerismo. Secondo me la parte più interessante della vita sono i suoi piccoli misteri, come quando ti innamori di qualcuno e, probabilmente, ti innamori del suo mistero, cioè della sua parte impenetrabile. Avevo in mente questa idea, ma non riuscivo a darle una forma, poi mi sono imbattuto in questo fatto di cronaca e il cervello ha subito fatto click: mi piaceva quella frase che avevano trovato, mi piaceva il discorso di non poter risolvere sempre tutto, che è qualcosa che è in noi che vogliamo sempre capire, sempre dare motivazione alle cose, vogliamo sempre un perché, ma spesso i perché non ci sono o non li possiamo capire».

Il nome Alcàntara sembrerebbe dare un’anima etnica, folk, alla band formata da Sergio Manfredi Sallicano (voce e testi), Francesco Venti (chitarra solista e produzione), Vittorio Distefano (chitarra acustica e slide), Salvo Di Mauro (chitarra ritmica), Delio Santi (basso) e Rosario Figura (batteria). Tutti catanesi, tranne il cantante siracusano. Invece, gli Alcàntara si muovono in un ambito che include anche il folk, ma contaminato con il rock, il jazz, la classica: un miscuglio sonoro che viene comunemente codificato in “progressive”. 

«Non volevamo un nome inglese, perché ci sembrava banale, cercavamo un nome che suonasse misterioso, esotico. Alla fine, abbiamo scoperto che l’esotico è a due passi da noi. Ha un bel significato, è una parola araba, ci siamo identificati, perché è un qualcosa che arriva d’impatto senza però darti una immagine precisa».

Sergio Manfredi Sallicano (voce e testi)

Forse perché non sono musicisti di primo pelo, «siamo tutti quarantenni e alcuni abbondanti», hanno scelto di avventurarsi in territori musicali ormai poco battuti. Il “progr” è un genere che non capita spesso di sentire al giorno d’oggi. Una musica che risale agli anni Settanta e che sfida le regole e le tendenze del mercato musicale attuale per la complessità sonora e per la lunghezza dei brani, di gran lunga oltre la fatidica soglia dei tre minuti scarsi delle canzoni di oggi. Insomma, una musica di nicchia, anzi, come ammette Sallicano, «nicchia di una nicchia».

«Una volta ho letto un libro di Carlo Rovelli (un noto fisico italiano, ndr) sul tempo», racconta il cantante siracusano. «Provando a illustrare cos’è il tempo, Rovelli parla anche del cervello, spiegando sostanzialmente che il cervello è una macchina predittiva. Cioè, noi in tempo reale anticipiamo sempre quello che sta per succedere: più abbiamo pattern comportamentali codificati, più è semplice gestire la realtà. Quando ti lavi i denti con lo spazzolino, tu non pensi come usarlo, perché il tuo cervello ha uno schema comportamentale e sa più o meno come funziona il movimento della mano con lo spazzolino. Poi Rovelli fa l’esempio della musica: nelle melodie che noi conosciamo e ascoltiamo – e il 90% delle melodie che ascoltiamo in radio, a casa, al supermercato, sono le stesse – il cervello ha quel pattern lì, per cui le riconosce, si abitua e si trova nella sua comfort zone. Invece, il “prog”, come tanti altri generi, costringe il cervello a una piccola novità, il secondo dopo, dieci minuti dopo. Ti mantiene curioso, arriva qualcosa di inaspettato, è pieno di imprevisti. Poi ogni genere ha i suoi cliché, quindi io non ne farei una questione di genere. Noi non ci siamo mai seduti e abbiamo detto: “Facciamo prog”. Anche perché “prog” significa tutto e niente. È una definizione che ci hanno dato e ce la stiamo tenendo. Io non mi identifico con il progressive, non mi identifico con alcun genere».

Il disco d’esordio, Solitaire, era molto (forse troppo) d’ispirazione floydiana. Tamam Shud segna una svolta verso un suono più deciso, originale. È un rock moderno, progressivo al suo meglio e coinvolgente, perfettamente creato ed eseguito da una band che ha trovato una sua dimensione più precisa dopo il debutto ancora acerbo. Ci sono richiami ai King Crimson, restano echi dei Pink Floyd, sia quelli psichedelici di Syd Barrett come quelli più onirici di David Gilmour, al progressive italiano degli anni Settanta e, in un brano (Distant Star), la voce di Sallicano rimanda a Jim Morrison dei Doors. Non c’è un anello debole fra i sei brani che compongono il disco, è un flusso magnificamente godibile e avvolgente. È un rock neoprogressive moderno, lussureggiante, di classe, perspicace e melodicamente impressionante. E potrebbe essere definito un concept album che può resistere alla prova del tempo.

«Se intendi quegli album che raccontano una storia unica con un inizio e una fine, non è un concept album», tiene a precisare il frontman degli Alcàntara. «Nella mia testa lo è, perché il tema è unificato, non sono sei canzoni messe insieme perché le riteniamo belle, sono sei canzoni che hanno un trait d’union dal punto di vista lirico e musicale».

Rispetto al precedente, dove tutte le tracce sono cantate in inglese, in questo nuovo lavoro Sallicano inserisce anche versi in italiano. E, anche nelle liriche, vorrebbe mantenere il mistero. «I testi li scrivo io, però parlare dei contenuti mi crea sempre imbarazzo», sorride. «Non ritengo sia necessario parlare di ciò che una persona scrive, dipinge, scolpisce. Toglie un po’ di magia. Vorrei lasciare libertà d’interpretazione, mi piace la compartecipazione di chi usufruisce di qualcosa. L’album è composto di sei piccoli viaggi musicali, e poi ciascuno si fa il viaggio come vuole. In generale, rappresenta un momento di trasformazione che ho attraversato nella vita, in questi testi c’è molto di me, ma non in senso autobiografico, e c’è molta auto psicanalisi anche senza volerlo. Scrivere per me rappresenta cristallizzare qualcosa che hai dentro di te, portarla fuori e lasciarla lì».

Tamam Shud  è un disco sognante, nel quale c’è una prevalenza di ballate, che l’autore ama definire «space ballad». «Abbiamo quest’anima così malinconica, io la chiamo spaziale. Mi piace questa dimensione, io vengo da una grande passione per l’astronomia», sottolinea Sallicano.

Il primo lavoro, Solitaire, è riuscito a intrufolarsi nell’underground europeo, destando interesse e quella curiosità che nel nostro Paese da tempo si è persa. Anche Tamam Shud, annunciato da tre singoli, sta registrando riscontri positivi oltr’Alpe. «Siamo molto conosciuti all’estero. Purtroppo, l’Italia, culturalmente parlando, è indietro. Lo so, può sembrare brutale, presuntuoso, ma è la realtà», è l’amara constatazione di Sallicano. Confermata mesi fa in una intervista a Vittorio Nocenzi del leggendario Banco del Mutuo Soccorso.

«Anche quei gruppi lì sono molto più famosi all’estero che qui», riprende la voce degli Alcàntara. «Se tu fermi qualcuno e gli parli degli Area ti guardano con gli occhi stralunati, se lo chiedi in Inghilterra o in Germania qualcuno li conosce. Nella musica qui siamo molto indietro. Al nostro successo all’estero ha contribuito anche il fatto che il primo disco era tutto in inglese e l’etichetta era irlandese. In queste settimane ci stanno passando tutte le radio straniere, Inghilterra, Scozia, Irlanda, Germania, Polonia, Croazia, Ci hanno scritto anche persone iraniane, leggendo il titolo in persiano. In Italia non si muove foglia».

Qualche foglia si muoverà venerdì 13 giugno allo Zō Centro Culturale Contemporanee di Catania per lo showcase degli Alcàntara, durante il quale presenteranno per intero il nuovo album in uscita lo stesso giorno. All’evento non potrà partecipare la violinista Caterina Coco che, nel disco, amplifica la dimensione epica di Wodwo/Vertigo, «ma sarà in base, delle quali faremo largo uso, vista la complessa strumentazione», annuncia Sallicano. Ci sarà, invece, il tastierista aggiunto Alessandro Caltabiano e debutterà il nuovo bassista Danilo Montagnino. 

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